Colleferro. Grande successo e feeling con il pubblico per “Omaggio a Caruso” con Danilo Rea e Barbara Bovoli. Ritratti di libertà

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COLLEFERRO – «Non so di preciso cosa sia la magia. Ma so che inizia sempre quando non te ne vuoi andare» (C. Pavese).

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È esattamente questa l’emozione che ha provato il pubblico che il 4 Febbraio sera al Teatro Comunale Vittorio Veneto di Colleferro ha assistito allo spettacolo “Omaggio a Caruso”, secondo spettacolo dell’interessante palinsesto proposto dalla Stagione Teatrale del Vittorio Veneto 2023.

Il pubblico non avrebbe mai voluto andar via da quella magia.
A compierla, sul palco, due abili “stregoni” della musica e della recitazione: Danilo Rea e Barbara Bovoli che abbiamo incontrato per un’intervista poco prima della performance.

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Danilo Rea è uno dei pianisti jazz più apprezzati al mondo. Di formazione classica, poco dopo il diploma, come lui stesso ci racconta, decide di «essere libero dalla forma e dagli schemi che comunque vanno studiati ma che poi vanno anche dimenticati».

La sua sensibilità d’artista, gli aveva fatto comprendere già ai tempi del conservatorio che i mondi si mischiano, che si posso trovare elementi di libertà anche in Debussy o in Franck ma la mentalità armonica, la voglia di improvvisare e l’incontro del tutto casuale con il jazz, hanno prevalso su tutto e lo hanno definitivamente portato verso la libertà dell’improvvisazione.

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– In “Omaggio a Caruso” dovendo attenersi ad un testo scritto come riuscite ad essere liberi?
«Sul leggio in realtà – risponde Danilo Rea – non ci sono gli spartiti, ma i testi tratti dal libro Canto D’Amore di Mary Di Michele recitati da Barbara Bovoli. Io leggo ogni parola e ascolto ogni pausa che fa Barbara, parole e pause costruiscono la partitura fonte di improvvisazione».

Inventarsi ogni sera non deve essere facile ma la Bovoli spiega che è un gioco di squadra: «Ogni sera ci si appiglia l’uno all’altro, in una catena di nuove idee, suggestioni e immagini che provengono anche dal proprio vissuto o dal pubblico e dal contesto in cui si è, e per questo sempre diverse di volta in volta».

Con questi presupposti dunque si è dipinta la figura di Caruso come uomo e come artista con qualche “pennellata” sulla sua epoca musicale.
Di Caruso sono stati rievocati luoghi – quali il Metropolitan di New York, la Fifth Avenue, senza trascurare Sorrento e Napoli – ma anche i successi teatrali, le sue gioie e i suoi dolori privati.

Rea, come in un grande luna park, è salito con grande maestria sulle giostra di ogni genere musicale. Quella delle grandi arie d’opera come l’Habanera di Carmen, o Vesti la giubba di Pagliacci (la cui versione discografica di Caruso superò il milione di copie vendute!), ma anche su quella delle grandi canzoni napoletane e da lì ha trascinato il pubblico sulle montagne russe dell’improvvisazione.
Sempre con garbo, con misura; le regole ci sono, poi spariscono, poi tornano; per dirla con le sue parole «si deve suonare con gusto e cercando sempre strade nuove altrimenti non è jazz».

D’altra parte Rea, come Caruso, della trasversalità musicale ha fatto uno strumento di libertà e di fama.
Per anni ha accompagnato artisti pop come Mina, Paoli, Baglioni; ha suonato in jazz band, ma ha anche duettato con il pianista Ramin Baharami su musiche di Bach, ottenendo sempre il favore del pubblico e della critica.

Rea è convinto che il pubblico non debba dire «che bravo jazzista», ma piuttosto «che bravo musicista» poiché «la Musica deve andare oltre la tecnica, il genere, la forma e l’interprete.
«I veri protagonisti della performance devono essere la musica e le emozioni».

«Quello della commistione di generi potrebbe anche essere – secondo Rea, dal suo osservatorio diretto – un modo per infondere curiosità in un pubblico giovane che purtroppo sembra allontanarsi sempre più dal mondo della classica, ma anche del jazz».

La curiosità appunto, quella componente che agli inizi lo aveva portato a non fuggire dagli incontri “devastanti” (come li considerava il giovane Rea), con personalità del calibro di Chat Baker o Lee Collins – miti del jazz americano – che in un primo momento lo avevano portato anche a pensare di non essere… all’altezza.
Ma era talmente forte la spinta verso questa forma musicale che ha usato quelle esperienze per affinare gusto, orecchio, sensibilità fino a diventare egli stesso maestro ed esempio a livelli internazionali.

Il successo di “Omaggio a Caruso” dunque è stata la commistione di talenti, di vite appassionate, di arti diverse: il presente che trae spunto dal passato, lo rievoca, lo stravolge e che alla fine lo rimanda a noi che dobbiamo accoglierlo con attenzione per trarne lezioni di vita, di passione e di libertà.

Giuseppina Mazzei

 

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